La popolarità de “I promessi sposi”, è già stato ricordato, risiede anche in alcuni celebri passaggi che sono diventati modi di dire comuni, ripetuti e adattati spesso anche a situazioni distanti dal romanzo. Tra le espressioni diventate ricorrenti nella nostra lingua, due si impongono senza indugio sulle altre. La prima è «questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai», passo già menzionato in altre parti del Grand Tour. L’altra è «la sventurata rispose». Tre parole che racchiudono tutto, un esempio di abilità linguistica che ha pochi altri pari nella storia della letteratura. Umberto Eco, un altro che con le parole ci sapeva indubbiamente fare e che a proposito del romanzo ha detto «I promessi sposi sono il cinema prima del cinema», scrive alcune righe illuminanti nelle “Postille a il nome della rosa”: «Ci sono romanzi che respirano come gazzelle e altri che respirano come balene o elefanti. L’armonia non sta nella lunghezza del fiato, ma nella regolarità con cui lo si tira: anche perché se a un certo punto (ma non dovrebbe essere troppo sovente) il fiato si interrompe e un capitolo o una sequenza finiscono prima che il respiro sia tirato del tutto, questo può giocare un ruolo importante nell’economia del racconto, segnare un punto di rottura, un colpo di scena. Almeno così si vede fare dai grandi: “La sventurata rispose” – punto e a capo – non ha lo stesso ritmo di “Addio ai monti”, ma quando arriva è come se il bel cielo di Lombardia si coprisse di sangue».
Eccoci infine giunti a Monza, che insieme a Lecco e Milano è la terza grande città protagonista de “I promessi sposi”. La storia di Gertrude, la Monaca di Monza, ed Egidio, il suo amante, è un vero e proprio romanzo nel romanzo, che si sviluppa per due capitoli, il IX e il X. L’eterna rivalità tra purezza e peccato, al centro del travagliato cattolicesimo di Alessandro Manzoni, trova in questa tormentata vicenda la sua l’apoteosi.
Ricordiamo in breve i fatti. Fra Cristoforo invita Renzo e Lucia a lasciare il loro paese per recarsi a Monza. Giunti in città in compagnia di Agnese, i due promessi si separano. Renzo prosegue alla volta di Milano, Agnese e la figlia invece vanno alla ricerca del convento dei cappuccini, dove le ha indirizzate l’amico frate. Manzoni ci informa che il capoluogo della Brianza ospita «un antico torracchione mezzo rovinato» e «un pezzo di castellaccio, diroccato anch’esso». Nel «borgo antico e nobile, a cui di città non mancava altro che il nome», «passa il Lambro» e «c’è un arciprete», così riferisce uno storico milanese, da cui lo scrittore prende spunto. «Dal riscontro di questi dati», aggiunge quindi il Manzoni, «noi deduciamo che fosse Monza senz’altro».
E adesso seguiamo Agnese e Lucia mentre sono dirette al cenobio. «Le donne si sarebber trovate ben impicciate, se non fosse stato quel buon barocciaio, che aveva ordine di guidarle al convento de’ cappuccini, e di dar loro ogn’altro aiuto che potesse bisognare. S’avviaron dunque con lui a quel convento; il quale, come ognun sa, era pochi passi distante da Monza. Arrivati alla porta, il conduttore tirò il campanello, fece chiamare il padre guardiano; questo venne subito, e ricevette la lettera, sulla soglia». Per rivivere appieno la scena occorre percorrere l’attuale via Marsala in direzione di corso Milano. Difficile ritrovare, tra una rotonda e il parcheggio di un supermercato, lo scenario che hanno davanti agli occhi le due donne. Ma d’un tratto ecco il muro di cinta dell’antico convento. Qua e là ci sono mattoni a vista. Quella che un tempo è la cappella, sconsacrata in epoca napoleonica, adesso è una elegante villa. A ricordare il luogo manzoniano c’è una targa sul muro: “Questo luogo, già convento dei cappuccini, fu immortalato dall’arte dei Promessi Sposi. Rifugio di deboli difesa di oppressi esaltazione di umili su prepotenze e tempi vindice la benefica fede ai trionfi avvezza”. Di fianco spicca uno strappo d’affresco protetto da un vetro: la credenza popolare identifica in quella donna con abito e velo da religiosa la monaca di Monza. È solo una suggestione, perché in realtà si tratta di una raffigurazione della Madonna dell’Addolorata.
Spostiamoci ora alla chiesa di San Maurizio, in piazza Santa Margherita, seconda tappa dell’itinerario monzese. Siamo nel cuore della città, davanti all’edificio religioso che un tempo è parte del convento dove vive, rinchiusa, Suor Virginia De Leyva. Seguiamo ancora una volta le pagine del Manzoni. Il padre guardiano dei cappuccini accompagna le due donne al convento della Signora. Agnese e Lucia durante il tragitto chiedono al barrocciaio quel che non hanno avuto coraggio di domandare al frate, cioè chi è la donna che stanno per incontrare. «Lei è una monaca; ma non è una monaca come l’altre. Non è che sia la badessa, né la priora che anzi, a quel che dicono, è una delle più giovani: ma è della costola d’Adamo; e i suoi del tempo antico erano gente grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano; e per questo la chiamano la signora, per dire ch’è una gran signora; e tutto il paese la chiama con quel nome, perché dicono che in quel monastero non hanno avuto mai una persona simile; e i suoi d’adesso, laggiù a Milano, contan molto, e son di quelli che hanno sempre ragione, e in Monza anche di più, perché suo padre, quantunque non ci stia, è il primo del paese; onde anche lei può far alto e basso nel monastero; e anche la gente di fuori le porta un gran rispetto; e quando prende un impegno, le riesce anche di spuntarlo; e perciò, se quel buon religioso lì, ottiene di mettervi nelle sue mani, e che lei v’accetti, vi posso dire che sarete sicure come sull’altare».
Di quel convento, dove «lei può far alto e basso» resta poco: l’unica traccia è l’ingresso a volta, oggi inglobato nell’atrio di un palazzo costruito negli anni Cinquanta del secolo scorso. L’attuale chiesa di San Maurizio viene invece costruita alla fine del Settecento sul perimetro dell’antica chiesa di Santa Margherita. Per visitare l’interno conviene approfittare della messa, la domenica mattina. Una volta dentro gli occhi non possono che andare all’abside, un tempo diviso da una grata. È lì che Suor Virginia e le consorelle seguono le funzioni religiose. È tra quelle mura che la Signora diventa monaca a soli quattordici anni. Sulle pareti c’è un ciclo di affreschi di Carlo Innocenzo Carloni, tra i massimi esponenti del barocchetto lombardo.
Lei entra in scena così nel IX capitolo: «Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento».
Di Suor Virginia, al secolo Marianna De Leyva, la “sventurata” appunto, esistono più ritratti. In uno a firma di Francesco Hayez, in collezione privata, appare di profilo con lo sguardo abbassato. Giuseppe Molteni invece la mostra con gli occhi semichiusi, che sembrano fissare un punto qualunque a terra, il dipinto è ai Musei Civici di Pavia. I Musei Civici di Monza, invece, di recente hanno ricevuto in comodato un altro ritratto del Molteni, in cui la religiosa appare seduta a un tavolino con l’aria assorta, di fianco un vaso di fiori, forse un dono dell’amante. Il pittore monzese Mosè Bianchi le dedica due lavori, uno conservato sempre ai Musei Civici di Monza, l’altro alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino; in entrambi Suor Gertrude ha occhi grandi, aperti, quasi sbarrati dalla paura; nel secondo, nel riquadro in alto, compare anche il volto di Egidio, l’amante. Sempre del Mosè Bianchi esistono acquerelli e acqueforti che hanno per protagonista Suor Virginia, seducente star della ritrattistica ottocentesca, anche novecentesca.
Torniamo al capitolo IX del romanzo. Dopo il colloquio tra Lucia e Gertrude, Manzoni avvia una lunga digressione che ripercorre l’infanzia e la giovinezza della monaca; la sua storia si conclude solo nel capitolo successivo. Grande peccatrice o giovane donna oppressa dalla volontà paterna, che siate dell’uno o dell’altro parere su un punto non si può che essere tutti d’accordo: Suor Virginia è tra i personaggi fuoriusciti dalla felice penna del Manzoni che più si ricordano. Tra le pagine lo scrittore non si esime neppure dal criticare aspramente l’uso di costringere alla monacazione i figli cadetti, espediente economico a lungo adottato nei secoli passati dalle famiglie più abbienti per limitare la dispersione del patrimonio. Sono soprattutto le figlie femmine le vittime di tale fenomeno riassumibile nel tragico dilemma: maritar o monacar? A tal riguardo meritano un cenno due altri lavori pittorici: uno di Francesco Gonin, Gertrude pronta a entrare in convento, oggi a Brera, e un altro del Mosè Bianchi titolato Una vittima del secolo XVII, ai Musei Civici di Brescia.
La celeberrima frase compare al X capitolo: «Tra l’altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi, per compensarla di non poter esser badessa, c’era anche quello di stare in un quartiere a parte. Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’ tempi, e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose».
L’itinerario monzese ora si sposta poco lontano dalla chiesa di San Maurizio, in via Visconti 46 dove c’è l’ingresso del Gruppo Meregalli, fiorente e storica impresa, vanta oltre 160 anni di attività, un tempo dedita alla mescita di vini e oggi al commercio di molte delle più pregiate etichette italiane e straniere. Qui negli anni Ottanta viene scoperto il pozzo quattrocentesco dell’antico convento, ora custodito in una delle sale più suggestive delle cantine. La sua storia però mette i brividi, perché in quel pozzo trova la morte Caterina Cassini di Meda, consorella di Suor Virginia, uccisa a randellate dal Gian Paolo Osio, l’Egidio manzoniano, per aver minacciato di denunciare la tresca con la Monaca. Oggi l’atmosfera intorno al pozzo è molto più lieve. La famiglia Meregalli ha realizzato in queste sale il Museo del Vino, dando casa alla collezione privata di migliaia di bottiglie speciali.
Il viaggio si conclude sulle sponde del Lambro, per seguire la fuga delle due consorelle complici, Benedetta e Ottavia, che sentendosi ormai in pericolo al convento si rivolgono all’Osio perché le aiuti ad andarsene. Lui, desideroso di liberarsi delle due, trasformatesi ormai in una costante minaccia, accetta ma in testa ha un suo piano. Giunti nei pressi del fiume, Ottavia viene colpita più volte in testa e gettata nelle acque. Si salva nuotando, morirà più tardi in conseguenza alle percosse subite. Poi cerca di sbarazzarsi di Benedetta, ma sopravvive pure lei. Saranno tra le principali testimoni del processo istituito dalla Curia milanese. Riguardo all’Osio, tuonano le parole del Manzoni: «scellerato di professione». C’è poco altro da aggiungere.
Chiesa d San Maurizio
Piazza Santa Margherita 8
Monza
Musei Civici di Monza
Via Teodolinda Regina 4
Monza
museicivicimonza.it
Pinacoteca di Brera
Via Brera 28
Da martedì a domenica 8.30-19.15
pinacotecabrera.org