082. Eccoci al “gran borgo” - Grand Tour nel cuore della Lombardia

Eccoci al “gran borgo”

Il compianto giornalista e scrittore lecchese Angelo Sala ci ricorda che è sempre con lui, Alessandro Manzoni, che bisogna fare i conti. «Un paese che chiamerei uno dei più belli del mondo», scrive Don Lisander nella prima stesura del suo romanzo. Nell’edizione finale Lecco è dipinta così: «la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia».

Alla sua patria poetica il Manzoni dedica un omaggio d’amore quale poche altre terre hanno avuto. Lo si capisce fin dalle prime righe, nel celeberrimo incipit che tutti quanti abbiamo mandato a mente: «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni». Poche pennellate di infinita tenerezza con cui lo scrittore compone il quadro dell’ambiente. Per non dire poi del già ricordato Addio, monti, in cui Don Lisander presta a Lucia sentimenti che infine sono i suoi, generati dal «tristo passo» dell’allontanamento da quelle «cime ineguali» fra le quali è cresciuto e alle quali, volontariamente, non fa più ritorno. Sul «magnifico delle vedute» che si dispiegano in «prospetti ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi» indugia con affetto il romanziere, descrivendo la «sua» terra.

I promessi sposi” e Lecco sono uniti da un connubio indissolubile. Il romanzo e il suo autore continuano a rappresentare per la città non solo un formidabile volano promozionale, ma anche un fatto concreto, rilevante, che si materializza in luoghi, musei, palazzi. Sì, perché parlare di cultura da queste parti, ancora oggi, suona prima di tutto come un invito a ricercare i luoghi manzoniani, quelli che alla terra lecchese danno fama imperitura. Alcuni sono legati a momenti della vita del Manzoni: il Caleotto di Lecco, la Cascina Costa di Galbiate, il collegio di Merate. Altri hanno sapore letterario e stanno attorno a «quel ramo del lago di Como»; altri ancora sono disposti a corona del «gran borgo». Taluni sono reali, altri sono ricreati dalla fantasia. Il Manzoni cita nel romanzo alcuni toponimi lecchese: Pescarenico, Maggianico, Chiuso, Cantarelli, Pasturo, i villaggi della Valsassina devastati dai Lanzichenecchi. Lascia invece nella penna i nomi del paesello di Renzo e Lucia, del palazzotto di don Rodrigo, del castello dell’Innominato. Si sono impegnati in tanti a costruire una topografia esatta de I Promessi Sposi. Ma il Manzoni sfida i lettori da quasi due secoli. Raccontando la conversione dell’Innominato, si chiede e ci chiede in tono canzonatorio: «E chi sa se, nella valle stessa, chi avesse voglia di cercarla, e l’abilità di trovarla, sarà rimasta qualche stracca e confusa tradizione del fatto?».