L’Adda è protagonista a più riprese ne “I Promessi Sposi”. Prima come punto di rottura, nella recita dell’Addio ai monti di Lucia, poi come luogo dove culmina la fuga di Renzo, che affida la sua salvezza proprio al fiume. Siamo nei capitoli XVI e XVII, il giovane sposo promesso, lasciata Gorgonzola, si rimette in cammino.
«Ha detto sei miglia, colui, – pensava: – se andando fuor di strada, dovessero anche diventar otto o dieci, le gambe che hanno fatte l’altre, faranno anche queste. Verso Milano non vo di certo; dunque vo verso l’Adda. Cammina, cammina, o presto o tardi ci arriverò. L’Adda ha buona voce; e, quando le sarò vicino, non ho più bisogno di chi me l’insegni. Se qualche barca c’è, da poter passare, passo subito, altrimenti mi fermerò fino alla mattina, in un campo, sur una pianta, come le passere: meglio sur una pianta, che in prigione».
Attraversa strade solitarie e paesi addormentati, supera i campi coltivati e si inoltra in un bosco che risveglia nella sua mente ricordi paurosi di fiabe ascoltate nell’infanzia. In preda all’angoscia sta per tornare sui suoi passi, quando sente la «voce» del fiume amico, presso il quale è nato, che discende dai suoi monti. A mano a mano che ritrova il coraggio, la natura torna a essergli amica. È la salvezza!
«Nella strada fuor dell’abitato, si soffermava ogni tanto; stava in orecchi, per veder se sentiva quella benedetta voce dell’Adda; ma invano. […] A poco a poco, si trovò tra macchie più alte, di pruni, di quercioli, di marruche. Seguitando a andare avanti, e allungando il passo, con più impazienza che voglia, cominciò a veder tra le macchie qualche albero sparso; e andando ancora, sempre per lo stesso sentiero, s’accorse d’entrare in un bosco. […] Era per perdersi affatto, ma atterrito, più che d’ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse. Così rinfrancato un momento, si fermò su due piedi a deliberare; e risolveva d’uscir subito di lì per la strada già fatta, d’andar diritto all’ultimo paese per cui era passato, di tornar tra gli uomini, e di cercare un ricovero, anche all’osteria. E stando così fermo, sospeso il fruscìo de’ piedi nel fogliame, tutto tacendo d’intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un mormorio, un mormorio d’acqua corrente. Sta in orecchi; n’è certo; esclama: – è l’Adda! – Fu il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un salvatore».
Il sommesso fruscio del più lombardo tra i fiumi
Adda è un bel nome, corto, essenziale, musicale e palindromo. Lo possiamo leggere da destra a sinistra e da sinistra a destra allo stesso modo. È anche un nome antico. Secondo alcuni Addua riflette la radice ad accompagnata dal suffisso preindoeuropeo ua riconoscibile in tanti antichi toponimi come Mantua (Mantova) e Genua (Genova). Per altri invece rinvia alla radice indoeuropea adu o adro ossia corso d’acqua. Un’ulteriore spiegazione parte infine da Abdua, da cui l’aggettivo abduano usato anche dal Foscolo nel celebre carme Dei sepolcri, «dagli antri abduani», che rimanda a sua volta al verbo latino abdere, nascondere. Dante Olivieri, filologo e linguista, autore del Dizionario di toponomastica lombarda, boccia questa ipotesi che tuttavia si coniuga alla perfezione con l’anima del fiume. Perché l’Adda si mostra con parsimonia e dà origine a un paesaggio dalla bellezza soffusa. Insomma, roba per palati fini. Un sorriso che si mostra, ma appena può si nasconde.
Come un navigatore si orienta in base a noti punti di riferimento, così tutti noi abbiamo bisogno di sentieri da esplorare. E non c’è dubbio che lungo questo fiume possiamo scavare nella nostra memoria. Del resto da sempre suscita grandi sentimenti. Secondo Gianni Brera il «sommesso fruscio dell’Adda attinge timbri arcani, melodie che trascorrono all’unisono con lo stesso fluire del nostro sangue». A ogni slargo di riva si sente l’eco di tutti i nostri avi. Un ponte ardito, ruderi melanconici, un barchetto ormeggiato, solidi palazzi, canali. Una vena preziosa e unica, pulsante di vita e di storia, le nostre. È il fiume lombardo per eccellenza: passa per il centro della Regione e si getta nel Po nel punto in cui la pianura padana è più ricca e fertile.
Non è certo un caso se nel settembre del 1803, un Alessandro Manzoni soltanto diciottenne manda al suo maestro Vincenzo Monti un idillio allegorico intitolato “Adda”: Diva di fonte umil, non d’altro ricca / che di pura onda e di minuto gregge, / te, come piacque al ciel, nato a le grandi / de l’Eridano sponde, a questi ameni / cheti recessi e a tacit’ombre invito […].
Lo accompagna con una lettera che comincia così: “Voi mi avete più vote ripreso di poltrone, e lodato di buon poeta. Per farvi vedere che non sono né l’uno, né l’altro vi mando questi versi”. Vincenzo Monti risponde declinando l’invito a soggiornare presso il Caleotto per incomodi di salute e per l’impegno nella traduzione delle “Satire” di Persio, tuttavia loda i versi del «bravo amico e poeta». In seguito sceglie di trascorrere un po’ di tempo nella pace dei campi e nella quiete della valle dell’Adda, che già avevano offerto riposo e conforto al grande Parini.