073. Paura di che? Il flagello della peste e la sconfitta della paura - Grand Tour nel cuore della Lombardia

Paura di che? Il flagello della peste e la sconfitta della paura

Una domanda s’impone: il ricordo della peste del 1630 sarebbe ancora così vivo senza la descrizione che ne fa il Manzoni ne “I promessi sposi”? Forse no, anche se va detto che sparse sul territorio lombardo si incontrano ancora molte cappelle e chiesette costruite all’epoca e dedicate a San Rocco, il santo invocato come protettore dal terribile flagello, e tante steli e croci, rimaste lì a ricordarci i tragici avvenimenti.

La cosiddetta peste manzoniana è una delle più violente di sempre. Infierisce nei territori colpiti con un’intensità e un vigore ancora maggiori rispetto alle precedenti del 1576 e del 1524. Uccide oltre 60 mila persone nella sola Milano, circa un quarto della popolazione. Il contagio è portato in Lombardia dall’esercito di Lanzichenecchi che tra l’estate e l’autunno del 1629 attraversa le Alpi diretto a Mantova, ducato considerato feudo dell’impero germanico e quindi rivendicato da Ferdinando II. Una questione di importanza marginale sullo scacchiere politico, almeno all’apparenza, ma attorno alla quale invece si accendono nuovi contrasti in Europa. Le truppe partono da Lindau, passano per Coira, la Valle Spluga, la Valchiavenna e poi la Valsassina fino a Lecco. Il resto del transito è meno noto, quasi certamente avanzano lungo un percorso il più possibile rettilineo attraverso il Ducato di Milano, per poi piegare a sinistra verso Mantova. I soldati, che nei Grigioni si sono già infettati, diffondono il contagio fra le Prealpi e lungo la direttrice dell’Adda. Da lì si riversa nella valle del Lambro e fra i colli di Brianza, serpeggiando sinistramente nelle campagne, fino a toccare anche i più piccoli centri abitati, salvo rarissime eccezioni. L’anno precedente una terribile carestia ha già investito queste plaghe, dunque è fra una popolazione stremata dalla fame e dalla miseria che sopravviene la morte nera. I primi sintomi si manifestano verso la fine del 1629, il contagio poi cresce col progredire della primavera. Durante l’estate, sempre funesta nelle malattie pestilenziali, s’infuria. Si procede con tutte le precauzioni conosciute allora, l’imbiancatura delle case, i profumi, la separazione degli infetti e la sepoltura dei cadaveri in luoghi separati, i cosiddetti “fopponi” appositamente scavati. Nei primi mesi del 1630 si sparge anche per Milano con una virulenza mai vista prima, si arriva a contare più di mille morti al giorno nei momenti peggiori.

Al tragico evento il romanzo del Manzoni dedica due capitoli, il XXXI e il XXXII. Famoso l’incipit del primo: «La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimenti che non si fermò qui, ma invase e spopolò in una buona parte d’Italia». La caccia agli untori, le voci incontrollate, i rimedi più assurdi, le credenze irrazionali prendono il sopravvento e diventano pericolose quanto il contatto fisico: «Sul finire del mese di marzo […] in ogni quartiere della città cominciarono a farsi frequenti le malattie, le morti per lo più celeri, violente, non di rado  repentine […]. I medici opposti alla opinione del contagio, non volendo ancora confessare ciò che avevano deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenziali: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto».

L’epidemia trova spazio anche nei capitoli successivi del romanzo fino alla sua conclusione. Tanti personaggi si ammalano e muoiono di questo morbo. L’autore indugia sul flagello che spazza via tutti: potenti e umili, dotti e ignoranti, santi e furfanti, vecchi, giovani e bambini. Di peste muoiono don Rodrigo in modo tragico, il Griso squallidamente, Padre Cristoforo in odore di santità, don Ferrante incredulo, certo com’è delle sue errate teorie sulle influenze astrali. Anche Perpetua non scampa alla peste. Qualcuno però ne guarisce. È il caso di Renzo che, presa la peste, si cura da sé, in realtà non fa nulla, e una volta rimessosi in forze torna a Milano in cerca di Lucia. La città è di nuovo in subbuglio, ora però non più per i tumulti della folla affamata, come durante la sua prima visita, ma perché devastata dalla pestilenza. Domina il silenzio, rotto solo dallo scampanellio che precede e accompagna il transito dei carri carichi di morti. Il giovane promesso si reca al Lazzaretto, siamo ormai quasi all’epilogo della storia, al capitolo XXXVI, il terzultimo. Entra nel quartiere delle donne fingendosi un monatto. L’amata però non compare. Finché ode una frase: «Paura di che? – diceva quella voce soave: – abbiam passato ben altro che un temporale. Chi ci ha custodite finora, ci custodirà anche adesso». Impossibile non riconoscerla all’istante. È lei, è Lucia. I due finalmente si ricongiungono. Nella breva frase «Paura di che?» Manzoni compie un altro dei suoi miracoli linguistici. Tre sole parole per costruire un orizzonte che rinvia a un sentimento predominante nella storia dell’umanità, la paura, contro la quale agiamo più o meno consapevolmente. «Paura di che?» è una formula di consolazione alla quale si ricorre per rassicurare chi si sente minacciato. Lucia, in questo caso, risponde a una vittima della peste, una giovane vedova che sta guarendo ma è ancora in un uno stato di debolezza, e teme il peggio. La paura è un condizione permanente che attraversa tutto il romanzo. A cominciare da Don Abbondio, il maggiore “eroe” di tale emozione. Anche Lucia sa bene cos’è la paura, l’ha vissuta sulla propria pelle. Eppure non ha perso la fiducia nel domani. «Paura di che?». La grandezza de “I promessi sposi” in fondo è tutta qui, nel suo continuare a parlarci di cose che abbiamo conosciuto, che conosciamo e che conosceremo.