059. Alessandro Manzoni, uno di noi - Grand Tour nel cuore della Lombardia

Qual è il romanzo più popolare in Italia? “I promessi sposi”. Studiato a scuola da generazioni, è a tal punto popolare che alcuni dei protagonisti sono diventati sinonimo di un certo modo di essere: don Abbondio è chi non fa il proprio dovere per paura dei potenti. Oppure di un certo modo di interpretare la professione legale: Azzeccagarbugli è un avvocato di poco conto e intrigante. Addirittura, la Perpetua manzoniana è diventata per antonomasia il nome comune con cui si indica la domestica di un sacerdote. Tutti noi usiamo ancora oggi queste espressioni.

Su un piano più strettamente letterario è doveroso annotare che “I promessi sposi” riveste un ruolo centrale nella nascita e nello sviluppo del romanzo italiano ed europeo, al pari di “Gargantua e Pantagruel”, “Don Chisciotte della Mancia”, “Robinson Crusoe” o “I viaggi di Gulliver” solo per citare alcuni titoli.

Detto ciò, sarebbe ipocrita negare che attorno al capolavoro manzoniano ha preso forma nei decenni l’idea di un noioso obbligo scolastico. Chi si cimenta nella sua lettura – a qualsiasi età – deve fare i conti con la lunghezza e la complessità storica. In tanti si sono cimentati nella prova di trasformare il testo originario in qualcos’altro con l’intento di avvicinare un pubblico più vasto. Dal manuale Bignami, il bigino per antonomasia in cui sono riassunti i trentotto capitoli, fino alla riscrittura in 38.130 cinguettii o tweet, gli esperimenti non si contano. In realtà ci sono tanti modi per conoscere, comprendere e amare “I promessi sposi”. Può aiutare, per esempio, ripercorrere i luoghi in cui l’autore trascorre la sua lunga e tormentata esistenza e quelli in cui ambienta la storia di Renzo e Lucia. A questi aspetti è dedicata una larga parte del nostro Grand Tour.

Per quel che riguarda la vicenda umana del Manzoni, questa non è certo la sede adatta a ricostruirne ogni piega, ma alcune cose meritano comunque di essere ricordate. L’autore de “I promessi sposi” è un malato di nervi affetto da una grave balbuzie, lui stesso in alcune lettere di descrive come un «povero convulsionario». Inoltre soffre di una grave agorafobia, al punto che preferisce uscire di casa in compagnia di qualcuno che possa sorreggerlo nel caso sopraggiungano all’improvviso crisi acute. Qualcuno si domanderà: che importanza hanno simili fatti personali sulla vicenda artistica? È difficile rispondere, anche perché gli stessi studiosi si dividono al riguardo. Taluni restano fedeli al pensiero di Benedetto Croce, che considera le vicende biografiche degli scrittori, e in genere degli artisti, ininfluenti rispetto alla loro opera. Altri, però, sono del parere opposto.

Natalia Ginzburg negli anni Ottanta dà alle stampe “La famiglia Manzoni”, una sorta di biografia epistolare in cui Alessandro a tratti è presente quasi in filigrana, quanto basta però a far emergere un personaggio a tratti incomprensibilmente arido e insofferente, fragile eppure egoista, umbratile, enigmatico nella sua distante disponibilità. Un uomo vittima di fantasmi negativi che segnano la sua esistenza fin dal giorno in cui viene alla luce, il 7 marzo 1785. Nei salotti milanesi si racconta che Alessandro è il frutto dell’amore fra la madre, Giulia Beccaria, e Giovanni Verri, quartogenito della famosa schiera di fratelli lombardi. Il padre ufficiale, Pietro Manzoni, manifesta qualche problema ad accudire un figlio che probabilmente non è suo. La madre, donna eccezionalmente moderna e anticonformista, cresciuta nel turbine degli ambienti illuministi – suo papà, Cesare, è l’autore del saggio “Dei delitti e delle pene” che mette al bando la pena di morte e la tortura in un’epoca in cui entrambe le pratiche sono assai diffuse – lo affida prima a una balia di Galbiate, in provincia di Lecco, e poi a un collegio di Padri Somaschi a Merate, dove pare abbondino le punizioni, anche corporali. Dopodiché fugge a Parigi col conte Carlo Imbonati. Mamma e figlio si rincontrano nella capitale francese tredici anni più tardi, è il 1805. Lui è un ventenne che balbetta, anticlericale veemente, incline a uno stile di vita dissoluto. Il compagno di Giulia, l’Imbonati, muore poco prima dell’arrivo di Alessandro e si congeda dalla vita terrena lasciando a lei un considerevole patrimonio che comprende anche quella che diventerà in seguito l’amatissima tenuta di Brusuglio, appena fuori Milano. Tra mamma e figlio scatta una robusta intesa: «Io non vivo che per la mia Giulia», scrive lui da Parigi a Vincenzo Monti, che conosce di persona e verso il quale nutre profonda ammirazione. Il vuoto degli anni precedenti viene presto colmato e le sirene della trasgressione lasciano spazio a una smania di ortodossia. Arrivano il matrimonio combinato con Enrichetta Blondel, la nascita della prima figlia, battezzata inevitabilmente con il nome di Giulia, la conversione al cattolicesimo, il trasferimento a Milano. Qui, dopo qualche anno diviso tra un’abitazione d’affitto in via San Vito al Carrobbio e palazzo Beccaria, si rinchiude infine nella casa di Via del Morone, con moglie, madre e sempre più figli. Compie puntate regolari a Brusuglio, dove ha modo di praticare la sua passione per l’agricoltura. Tutto il resto è cosa nota: l’intensa attività letteraria svolta nel cosiddetto “quindicennio creativo”, durante il quale si prodiga nella stesura di molte delle sue opere principali, il successivo viaggio in Toscana per “risciacquare i panni in Arno”, vale a dire per sottoporre alla definitiva revisione linguistica “I promessi sposi”, il secondo matrimonio con Teresa Borri, i soggiorni a Lesa, sul lago Maggiore, dove per oltre due anni si ritira con la famiglia, dopo gli avvenimenti del 1848, e i tanti lutti.

Meno risaputa è quella forma di nevrosi, con un corredo di manie delle quali a volte non è neppure facile distinguere il vero dalle chiacchiere, che lo accompagna per quasi tutta la vita. Il primo episodio, secondo le cronache, risale al 2 aprile del 1810, a Parigi, mentre sono in corso i festeggiamenti per il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria. C’è una gran folla e all’improvviso vengono fatti esplodere dei mortaretti. Si crea lo scompiglio generale. Nel parapiglia Alessandro perde di vista la moglie Enrichetta. La ritrova più tardi, dopo avere trovato riparo nella chiesa di San Rocco, dove per la prima volta prega Dio perché faccia riapparire la sua sposa sana e salva. La tradizione vuole che lì sia maturata la conversione. Quel senso di smarrimento, quasi di vertigine, che lo spinge dentro la chiesa, è in realtà una vera e propria crisi di nervi, probabilmente la prima della sua vita, ma certamente non l’ultima. È quello che alcuni chiamano il “lato oscuro” del Manzoni, al quale egli stesso cerca di porre un argine sorretto da due pilastri che si fecondano a vicenda: la scrittura e la profonda fede nella religione cattolica. Tali inquietudini causano in lui scoramento, soprattutto quando non gli è possibile avere dei soccorsi rapidi. Teme di avere mancamenti e si trova spesso in uno stato di agitazione insopportabile. Egli stesso scrive che «il mio male mi rende impossibile il solo rimedio efficace, le lunghe passeggiate». Ha difficoltà ad esprimersi verbalmente e anche di questo problema troviamo conferma nelle sue lettere. Prima di essere nominato senatore del regno cerca di sottrarsi in tuti i modi. All’amico Enrico Broglio, influente politico milanese scrive: «Di parlare, in Senato, non è nemmeno il caso di pensarci, giacché sono balbuziente, e tanto più quando son messo al punto; sicché farei, certamente, ridere la gente alle mie spalle anche soltanto a dover rispondere, lì per lì, alla formula del giuramento, giu… giu… giuro! Andare in Senato, anche per tacere, è già una grossa difficoltà per un uomo, che, da quarant’anni, in causa di attacchi nervosi, non osa mai uscir solo di casa sua».

Certo, dopo Freud ci sentiamo tutti legittimati a speculare sui traumi di un bambino nato per caso, abbandonato all’istante alla sua solitudine e privato dell’affetto materno e paterno. Ma non competono a questo lavoro simili speculazioni. Si può tuttavia affermare senza indugi che sotto la patina della ritrattistica ufficiale e dei monumenti celebrativi spuntano debolezze, angosce, ossessioni e un certo individualismo esasperato. Insomma, si staglia un uomo prima ancora che un letterato, per quanto grande esso sia.

 

Alessandro Manzoni (1785 – 1873)

Alessandro Manzoni nasce  a Milano nel 1785 da Giulia Beccaria, figlia del celebre giurista, filosofo e letterato Cesare Beccaria, ritenuto una delle figure di spicco dell’illuminismo italiano. Il padre legale è Pietro Manzoni, cinquantenne patrizio lecchese. Le voci, però, indicano come padre biologico Giovanni Verri, già legato a Giulia prima che lei si unisca in matrimonio con Pietro. Il piccolo Alessandro trascorre i primi anni lontano dalla madre, accudito da Caterina Panzeri, una balia che vive a Cascina Costa, appena fuori Galbiate, nell’alta Brianza lecchese. All’età di sei anni entra nel collegio San Bartolomeo dei Somaschi, a Merate, e per un decennio passa da un istituto all’altro, prima a Lugano, poi a Milano dai Barnabiti. Dopo il 1801 trascorre quattro anni col padre, don Pietro, dividendosi fra la casa milanese nei pressi di Porta Tosa e la tenuta del Caleotto a Lecco. Intrattiene rapporti con Vincenzo Monti, conosce Ugo Foscolo, incontra patrioti e intellettuali in esilio, divora le pagine del Parini e dell’Alfieri. Nel 1805, è invitato a Parigi, dove vivono la madre e il suo compagno, il nobiluomo Carlo Imbonati. Questi scompare prima del suo arrivo, lasciando a Giulia tutti i suoi beni. Accomunati dal dolore, Giulia e Alessandro, divisi fino a quel momento, si uniscono in uno stretto rapporto che sarà interrotto solo dalla scomparsa di lei, nel 1841. Appena ventenne, il Manzoni compone il poemetto “In morte di Carlo Imbonati”. Nella capitale francese frequenta circoli culturali assimilando teorie che influenzeranno la sua formazione. Nel 1808, a Milano, sposa Enrichetta Blondel, con rito calvinista, secondo la fede di lei. La coppia risiede a Parigi fino al 1810, anno del graduale passaggio dei coniugi alla religione cattolica, insieme alla madre di lui, Giulia, e alla primogenita, di nome Giulia pure lei. Nell’estate di quell’anno la famiglia Manzoni torna in Italia, dimorando tra Milano e Brusuglio, dove Alessandro inizia a prendersi cura del giardino. Esperto in botanica, nel corso della sua lunga esistenza su quel vasto fazzoletto di terra sperimenta nuove tecniche di coltivazione, pianta l’esotica robinia, conduce la vigna, prepara estratti e decotti, tenta senza successo di coltivare il caffè. Tre anni più tardi acquista una casa in via del Morone, con affaccio su piazza Belgioioso, nel cuore di Milano, dove trascorrerà il resto della sua vita. Tra il 1812 e il 1827, in un lasso di tempo che la critica chiama il “quindicennio creativo”, il Manzoni, ormai convertito al cattolicesimo e alle idee romantiche, produce le sue opere letterarie principali, da “Gli Inni Sacri” a le “Odi civili”, dalle tragedie “Il Conte di Carmagnola” e l’“Adelchi” fino a giungere alla stesura del primo grande romanzo della storia della letteratura italiana, “I promessi sposi”. Nel giorno di Natale del 1833 muore Enrichetta, stremata dai parti, ben dieci, e dai salassi. L’anno dopo si spegne anche la prima figlia, Giulia; la seconda, Luigia Maria Vittorina, se n’è già andata lo stesso giorno della nascita, il 5 settembre 1811, mentre Clara, la settima, scompare nel 1823, a soli due anni. Malattie e lutti sono frequenze incombenti in casa Manzoni, solo due dei dieci figli, Enrico e Vittoria, sopravvivono al padre, mentre anche la seconda moglie lo precede sulla via per i campi elisi nel 1861. Due anni prima il Manzoni riceve da Vittorio Emanuele II un vitalizio, che prelude all’elezione a senatore del Regno. La sua figura è ormai leggendaria. Riceve molte visite illustri, tra cui quelle di Cavour e Garibaldi. Accetta la cittadinanza onoraria di Roma, ma nella capitale non pone mai piede. Il 6 gennaio del 1873, alla veneranda età di 88 anni, uscendo dalla chiesa di San Fedele a Milano cade e batte la testa su uno scalino procurandosi un trauma cranico. Non si riprenderà più, ma anche gli ultimi mesi di vita non gli risparmiano dolori e lutti: il 28 aprile dello stesso anno se ne va anche Pietro Luigi, il primo figlio maschio. Alessandro muore il 22 maggio, dopo una penosa agonia. I suoi funerali, celebrati in Duomo, sono solenni. Il corteo funebre attraversa corso Vittorio Emanuele e giunge sino al Cimitero Monumentale. Tutta la città assiste attonita e la metà dei suoi abitanti, secondo le cronache dell’epoca, segue il feretro. L’anno dopo, nel primo anniversario della scomparsa, Giuseppe Verdi gli dedica la “Messa da Requiem”. Il Maestro dirige personalmente la prima esecuzione, che ha luogo la mattina grigia e piovosa del 22 maggio 1874 nella chiesa di San Marco a Milano.