Gian Giacomo Caprotti è il terzogenito di Pietro Caprotti e Caterina Scotti, una coppia originaria di Oreno, modesto villaggio ai margini meridionali della Brianza che verso la fine del Quattrocento conta non più di trecento anime. Come Gian Giacomo sia giunto nella bottega di uno degli artisti più acclamati dalla Milano sforzesca resta un mistero. Leonardo annota di proprio pugno su un foglio (oggi conservato nel cosiddetto Manoscritto C, parte di quelli appartenenti all’Institut de France di Parigi): «Iacomo venne a stare con meco il dì della Maddalena (il 22 luglio, ndr) nel 1490, d’età d’anni 10». Non aggiunge altro. Di fatto, si scatena un pandemonio quando il fanciullo «vaghissimo di grazia e di bellezza, avendo belli capelli ricci e inanellati», così lo ricorda Giorgio Vasari nelle celeberrime “Le Vite”, varca la soglia di Corte Vecchia. Gli altri allievi osservano, prima stupiti, poi furenti. Gian Giacomo diventa presto il modello preferito – il suo volto sembra celarsi dietro tanti lavori di Leonardo, che si tratti della figura di un vigoroso giovane o anche del viso di una fanciulla – e in seguito l’allievo prediletto. Alla fine del Quattrocento si trasforma nel Salaì. Il nomignolo gli è affibbiato dal maestro stesso, che si lascia guidare da un brano del Morgante di Luigi Pulci – sappiamo con certezza che il libro è presente tra quelli a lui appartenuti – dove la parola Salaj designa il diavolo o uno dei suoi accoliti. Una qualifica che, a quanto pare, calza bene al Caprotti, irrequieto e a tratti dispettoso. Ad ogni modo, lui è il solo allievo che, tra alti e bassi, litigi e pacificazioni, resta a fianco di Leonardo per tutta la vita. Lo segue a Mantova, Venezia, Firenze, poi di nuovo a Milano, Roma e infine in Francia. Sopravvive al suo maestro solo cinque anni. Scompare a Milano nel 1524, sembra per una schioppettata. Poi accade l’imponderabile. Uno storico – più indizi cadono su Paolo Morigia – si smarrisce tra le carte di Leonardo cercando disperatamente di dare un nome e un volto a quell’epiteto così ricorrente, Salaì o la variante Salaj. Non trova migliore soluzione che quella di lasciarsi guidare dall’assonanza fonetica. E giunge alla conclusione che Salaì è Andrea da Salerno, pittore vicino a Cesare da Sesto, a sua volta seguace di Leonardo. Di fatto succede che le storie della pittura cominciano a parlare di Andrea Salaino. Ancora nel 1872, lo scultore Pietro Magni perpetua nella sua scultura posta in Piazza della Scala l’oblio lungo oltre tre secoli. Solo nel 1919, Luca Beltrami, l’architetto che fa rinascere il Castello Sforzesco, per secoli ridotto a caserma, ufficializza una sconcertante verità: «Giov. Giacomo Caprotti, detto Salai: 1480-1524. Con questo nome e queste date, intendo designare per la prima volta, e senza alcuna riserva, l’allievo che trascorse la vita al fianco di Leonardo».
Negli ultimi decenni si sono succedute nuove scoperte su questa enigmatica figura. Nel 1990, due studiosi trovano all’Archivio di Stato di Milano un documento notarile redatto nel 1525 in cui compare un inventario dei beni appartenuti a Gian Giacomo Caprotti all’atto della sua morte. Quei fogli, una volta tornati alla luce e pubblicati su The Burlington Magazine sotto il titolo di “Salai and Leonardo’s Legacy”, suscitano stupore e scandalo. Stupore perché avvertono il mondo che il Caprotti è morto da ricco. Scandalo perché aprono nuove prospettive sulla sorte iniziale di alcuni capolavori leonardeschi. Nell’elenco dei beni figurano quadri con stime elevatissime, i cui soggetti richiamano i classici temi vinciani: la Sant’Anna, la Gioconda, il San Giovanni Battista. Si accende il primo dubbio: Salaì riporta a Milano i dipinti che accompagnano il maestro in Francia e che sono visti da alcuni visitatori a Clos-Lucé prima della sua morte?
Qualche anno più tardi, fra le note contabili dell’amministrazione reale francese conservate all’Archivio Nazionale di Parigi sono rinvenute altre informazioni sensazionali. In un registro del 1517, Salaì, indicato come servitore del maestro Leonardo da Vinci, risulta beneficiario di una “pensione” regia. L’anno seguente il suo nome compare nell’elenco degli assegnatari di regalie e gratifiche di vario genere da parte della corte francese. Ma è soprattutto nel preventivo per l’Éstat du duché de Millan approvato il 13 giugno 1518 che la vicenda riceve una svolta inattesa: Salaì viene indicato come pittore e destinatario di una quantità di denaro – che a quel tempo costituisce un’autentica fortuna – per la vendita di “quelques tables de peinture” al re Francesco I.
Neppure il più fantasioso degli sceneggiatori potrebbe creare una storia più intricata e avvincente. Come sono andate realmente le cose? Salaì riceve in eredità da Leonardo i suoi beni più preziosi – ossia quei dipinti destinati a diventare nei secoli icone universali e intramontabili – e corre subito dopo a rivenderli alla corte francese? Oppure agisce in pieno accordo col maestro di cui da anni è una sorte di procuratore? E i quadri rientrati con lui a Milano cosa sono? Semplici copie eseguite dallo stesso Salaì? Possibile, ma perché ad alcune di esse viene attribuito un valore infinitamente superiore che ad altre?
Potremmo andare avanti ancora a lungo a fare congetture di ogni genere. Forse un giorno conosceremo la verità, o forse no. Intanto possiamo fantasticare, perché del resto fantastica è la vicenda umana e artistica del Salaì, definito dallo scrittore francese Michel Tournier “l’altra metà di Leonardo”.